lunedì 27 luglio 2009

"L'Italia del Giro d'Italia"

L'idea del libro di Daniele Marchesini (professore di Storia contemporanea dell'Università di Parma) è quella di delineare uno scorcio di storia d'Italia attraverso la storia subalterna della manifestazione principe del ciclismo italiano, il Giro. Non si parla di imprese o di albi d'oro, cioè se ne parla ma in modo riflesso, perché anche quei dati e quelle statistiche sono documenti che si intrecciano con la storia del nostro Paese. Ma se ne parla proprio inserendoli all'interno di un contesto ben più ampio e sfaccettato da interpretare. Anche l'epopea dei «forzati della strada» diventa un indizio ulteriore da inserire sulla via della decifrazione della mappa della Storia. Marchesini ricorda che l'avvento del velocipede (come si battezzò la bicicletta nell'italiano di fine Ottocento) fu fra i principali segni prodotti e fra le principali molle dell'avvio dell'incipiente società di massa («Scandalo! E fu ciclismo», così titola ad esempio uno dei primi capitoli di quella che è la più importante opera sul ciclismo pedalato dell'editoria italiana che conosco, l'Enciclopedia Illustrata del Ciclismo in quattro volumi della De Agostini). Il ciclismo marcò infatti l'avvio della produzione su larga scala di mezzi meccanici con il conseguente formarsi di un mercato nazionale e incentivò della pari anche le prime grandi forme di partecipazione e di mobilitazione di massa. Il Giro d'Italia, poi, è stato l'istituzione regina espressa da questo movimento e in quanto istituzione, è stato, come scrive giustamente Marchesini, uno dei pochi saldi punti di riferimento per un popolo che ancora stentava a sapere dove stesse la sua identità nazionale. La Corsa Rosa è un'istituzione, fa parte della storia e dell'identità del Paese e nella vicenda del Giro davvero si rispecchia l'evoluzione sociale ed economica dell'Italia. Con una minuziosa attenzione non solo alle cronache, ma anche alle innovazioni tecniche, al contorno pubblicitario, persino ai gadget (dalle figurine agli indimenticabili tappi a corona con l'immagine dei corridori) che alimentano la passione e la mitologia popolare, l’autore offre al lettore una narrazione di sorprendente spessore storico che illumina molti ed essenziali aspetti della società italiana contemporanea. Un capitolo finale, di particolare attualità, ripercorre la storia del doping nell'evoluzione del ciclismo italiano dalle origini a oggi. Intorno alla scansione annuale dei giri viene perciò ricostruita in questo lavoro una vicenda complessa, fatta di industrializzazione e di innovazioni tecnologiche, di costumi popolari e di forme di organizzazione sociale stridenti tra loro, di crescente comunicazione (dalla stampa alla pubblicità) e di migliorata alfabetizzazione con i ceti popolari impegnati a erudirsi su La «Gazzetta dello Sport». Perfino il riassetto delle rete stradale passò attraverso le esigenze della grande corsa in bicicletta. Se il Giro ha risentito del contesto in cui è vissuto, ha pur contribuito a lasciarvi una traccia. La sua forte rilevanza sociale è indubbia, come è indubbia quella più specificamente politica. Al Giro viene di volta in volta assegnata una funzione patriottica diversa per cementare i nuovi confini: la corsa che fa tappa a Trento e a Trieste nel 1919, un'apertura al Sud e alle isole negli anni più crudi della questione meridionale, l'apertura verso l'Europa (e il Belgio, addirittura) negli anni in cui si inizia a parlare di MEC e di Merckx. Lo spirito nazionalistico, unito all'orgoglio autarchico, sottopose anche il Giro d'Italia al massiccio uso politico che il fascismo fece dello sport, pur se il ciclismo troppo plebeo e poco confacente con i modelli dinamici di modernizzazione predicati dal Duce e dal Futurismo non risvegliò mai del tutto gli interessi di Mussolini. Grande funzione politica il ciclismo l'ebbe di nuovo negli anni del secondo dopoguerra, quando la rivalità fra Bartali e Coppi assurse a simbolo dello scontro fra mondo cattolico e alterità laico-comunista, specialmente per la conclamata adesione politica del primo (terziario francescano tra l'altro, tanto da essere seppellito con un saio indosso) alla Dc di De Gasperi. Qualcuno, non a caso, ha addirittura parlato enfaticamente di un Bartali salvatore della patria in quel fatidico 1948 dell'attentato a Togliatti grazie alle sue imprese al Tour... Comunque, anche quel dualismo sarebbe stato per gli italiani segno di riscoperta della dialettica democratica. E il Giro accompagnò, ricominciando nel 1946 in mezzo alle macerie, la ricostruzione dell'Italia e poi il suo passaggio da paese agricolo e paese industriale. Quando la grande trasformazione giunse a compimento, il ciclismo, quasi fosse legato a un mondo arcaico, contadino in via di estinzione, imboccò la via della decadenza. E anche il libro di Marchesini, consapevole di questa evidenza, inizia a diventare più arido di notizie, gustosi aneddoti (anche solo spiccatamente ciclistici o di costume). Meno partecipe. L'unica debolezza di questo libro gradevole sia per gli storici sia per gli sportivi è forse quella di avere un titolo troppo ampio per il periodo storico che è poi in fin dei conti trattato con vero scavo, anche se questa impostazione è ben giustificata dalle premesse e dalle riflessioni conclusive dell'autore. Da segnalare che questa seconda edizione integra la precedente in varie parti: notevole soprattutto l'inserzione di un lucido (sebbene per scelta stringato: si fa storia del costume, non della chimica) capitolo sul fenomeno doping. Un ampliamento direi dovuto tenuto conto del fatto che, purtroppo, dall'epoca Pantani, un buon farmacista è in grado di segnare una corsa in modo più selettivo e marcato di un vero campione. Lancio un'idea a Marchesini: si potrebbe partire di qui per stendere un ulteriore libro che faccia il parallelo tra l'Italia degli scandali irrisolti, coi suoi solerti politici-tangentisti ancora aderenti ai loro seggi tra un'udienza e l'altra (naturalmente tutti processi per accuse infondate) e i dopati conclamati (poi, conclamati magari era davvero lo shampoo ad alterare i valori...) ancora in sella o in mezzo agli onori delle cronache. Non c'è nulla da fare: il ciclismo continua a dipingere la nostra Italietta come nessuno sport mai (Luca Battisti). Oltre trecento pagine per tutti gli amanti della storia e di questo appassionante sport. Pubblicato nel 1996 ed edito da “Il Mulino” costa 12 euro.

Continua a leggere...

sabato 25 luglio 2009

Tour, cerotti e voglia di ritiro. 60 anni fa l'impresa di Coppi

Vi riportiamo un articolo di Gianni Mura apparso sul quotidiano "La Repubblica" venerdì 24 luglio 2009, giorno in cui Alberto Contador, vincendo la crono ad Annecy ha messo una seria ipoteca sulla vittoria del 96° Tour De France.

Un flash di sessant' anni fa: il 24 luglio Fausto Coppi, mazzo di gladioli nella mano destra, cerotto sotto il ginocchio sinistro, fa il giro d' onore al Parco dei Principi. Gli corre accanto a piedi il massaggiatore Giannetto Cimurri. L' accoppiata GiroTour, che molti giudicavano impossibile, riesce a Coppi nel ' 49. Ha vinto il Giro con 23' su Bartali, ha esaltato i tifosi nella tappa tra Cuneo e Pinerolo, ma Bartali ha dominato il Tour del ' 48. Il ct Alfredo Binda riunisce i due rivali in Riviera, al tavolo di un ristorante, per quello che sarà chiamato il patto di Chiavari: Gino e Fausto non devono correre da nemici, sarà la strada a decidere. La strada sembra ostile a Coppi. In una delle prime tappe, al nord, tra Rouen e St. Malò, è coinvolto in una caduta con la maglia gialla Marinelli, un italiano di Francia, che riparte subito. Coppi non si fa male, ma la bici è rotta, l' ammiraglia di Binda è avanti per il rifornimento e sulla seconda auto c' è solo la bici di scorta di Ricci, non adatta alle gambe di Coppi. Che si siede sul bordo del marciapiede e aspetta. Matura propositi di ritiro. Binda arriva in moto, la bici di Coppi sottobraccio: «Allez, Fausto, si riparte». «No, voglio andare a casa, ormai il Tour è perso». «Non se ne parla nemmeno». «Ma anche lei, Binda, si è ritirato dal Tour». «Sì, ma me ne sono pentito tutta la vita. Allez». Si fermano i gregari, Martini, Pezzi, anche Bartali si ferma e lo incita. Sul traguardo Coppi e gli altri italiani hanno venti minuti di ritardo, trentasei in totale per Coppi. La crisi psicologica dura poco. Due giorni dopo Coppi vince la cronometro (92 km)a La Rochelle. Guadagna altri minuti sui Pirenei, dove Magni conquista la maglia gialla. Coppi e Bartali, alleati e non nemici, fanno il vuoto nella CannesBriançon, Coppi lascia la vittoria (e relativa maglia gialla) a Bartali, nel giorno dei suoi 35 anni. L' indomani, il patto di Chiavariè infranto non dai due corridori ma dal vice di Binda, Tragella, che nel resto dell' anno è ds della Bianchi, cioè di Coppi. A Guillestre, ai piedi dell' Izoard, vedendo arrivare Bartali si nasconde in un vicolo e non gli passa il sacchetto del rifornimento. Bartali comincia ad avere fame, poi fora. Coppi, che lo aveva raggiunto, rallenta per aspettarlo, Binda gli manda a dire di tirare dritto, possono sempre tornare sotto i francesi (in verità, Robic è a 10' ). Coppi arriva ad Aosta con 5' su Bartali, la maglia gialla è sua. Bartali è risentito, ma non Coppi, che comunque ha a sua disposizione una crono di 103 km tra Colmar e Nancy, che vince con 7' su Bartali. Gli unici problemi, semmai, sono legati al comportamento del pubblico. Nella tappa di Aosta, gruppi fascisti avevano inscenato manifestazioni non solo verbali antifrancesi. Ritorsioni inevitabili: una bottiglia di vetro passa a poca distanza dalla testa di Coppi nella cronometro, un poliziotto in moto blocca un esaltato che cerca di mettergli, letteralmente, un bastone tra le ruote. Pezzi chiude piangendo per una sassata che gli ha gonfiato un piede. A Parigi, Coppi chiude con 10' 55" su Bartali, 25' 13" su Marinelli, 34' 28" su Robic, 42' 10" su Magni, sesto. Partiti 120, arrivati 55 tra cui tutti e dodici gli italiani. L' Italia vince la classifica a squadre, Coppi quella degli scalatori. Media sui 4.808 km: 32,119.

Continua a leggere...

giovedì 9 luglio 2009

"Coppi e il diavolo"

Il volume segue le tappe della carriera del Campionissimo con grande realismo e la cronaca dell'ambiente sportivo è fedele come può esserlo la testimonianza di un critico che in quegli anni era già in pista. Il testo di Gianni Brera racconta quello che si nasconde dietro la facciata: i retroscena della vita di un uomo con le sue debolezze, le sue gioie, i suoi errori, che ha scelto il duro mestiere di pedalare per vincere il diavolo che segue ognuno di noi e che per Coppi è stato dapprima la bicicletta, poi Bartali, poi l'amore passionale e distruttivo per la "Dama Bianca", infine la malaria mortale. Il libro ha fatto di Coppi, personaggio romanzesco per natura, un vero personaggio da romanzo epico. La prima edizione è datata 1981, ristampato anche a febbraio 2008, il prezzo è di 12 euro, edito dalla Baldini Castoldi Dalai, 155 pagine da leggere tutte d’un fiato.

Continua a leggere...

giovedì 2 luglio 2009

CANTAGIRO: "Diavolo rosso"

Giovanni Gerbi fu un ciclista astigiano che corse a cavallo tra l’800 e il 900 (1885-1955) soprannominato “Diavolo Rosso”, fu uno dei pionieri del ciclismo. La leggenda narra che il nome gli venne affibiato quando, durante una fuga, capitò nel bel mezzo di una processione. Il parroco, vedendo questo “diau” (diavolo in piemontese) vestito con la sua tradizionale maglia da corsa di colore rosso, lo investì con questo epiteto. Agli inizi del secolo (nel 1902) Gerbi vinse la Milano-Torino con quasi mezz'ora sul secondo. Raccontano le cronache che, quando il corridore giunse sul rettilineo finale di Corso Casale, mancava ancora lo striscione del traguardo. Molti anni più tardi, un altro celebre astigiano Paolo Conte gli dedicò questa canzone proprio dal titolo “Diavolo rosso” contenente nel suo album “Appunti di viaggio” datata 1982. Proprio ad Asti è nata un'associazione no profit denominata "Diavolo rosso".

Continua a leggere...